lunedì 31 marzo 2008

Takashi Miike Collection: una raccolta di dvd per la Dynamic Italia

Inizio a parlare di cinema, e di cinema orientale ovviamente, riportando una notizia che era nell’aria da qualche tempo, e che, visto che certe notizie nascono in aria e con l’aria evaporano, nessuno osava riportare per timore di essere smentito. Aria fritta, si sarebbe detto.

Poi l’aria si è fermata un po’, e qualcuno ha iniziato a parlare…
La Takashi Miike Collection si farà, e saranno i lungimiranti tipi della Dynamic Italia a produrla.
Probabilmente la cosa lascerà indifferenti quanti non hanno familiarità con la delirante produzione del regista di Osaka, ma per gli altri, e per quanti avranno modo di scoprire Miike proprio attraverso questa collana di dvd, si tratta di una novità molto ghiotta, che a partire dalla fine di gennaio 2008 promette di soddisfare gli appetiti dei tanti estimatori del regista.
Si inizia con Ichi the Killer (
Koroshya Ichi, Giappone 2001) il suo film più conosciuto, e forse anche il più controverso (ma è davvero difficile immaginare un lavoro di Miike che non sia controverso!), e si procederà con una esaltante cavalcata attraverso alcuni dei titoli più suggestivi. In ordine sparso vedremo:
Agitator (Giappone 2001), City of lost soul (Giappone 2000) Dead or alive 1: Hanzaisha (Giappone 1999), Dead or alive 2: Tobosha (Giappone 2000), Dead or alive 3: Final (Giappone 2002), Graveyard of honour (Giappone 2002), Guys from paradise (Giappone 2000), Ley Lines
(Giappone 1999), Rainy dog (Giappone 1997), Shangri-la (Giappone 2002), Shinjuku triad society (Giappone 1995).
Finora in Italia è arrivato ben poco di Miike: il discreto The Call, un horror rarefatto che si muove sul sentiero iniziato da Ring di Hideo Nakata, l’ottimo e disturbante Audition, un episodio di Three Extremes, e la miniserie MPD - Psycho (Multiple Personality Detective), una sorta di CSI nipponico in chiave paranormale e contorno alla X-Files. La collana presentata dalla DYNIT, dunque, promette di colmare un gap incomprensibile nelle produzioni destinate al mercato nostrano dell’home video, soprattutto se si pensa a quanto sia conosciuto e apprezzato Takashi Miike in tutto il mondo. Arriviamo in ritardo, ma perlomeno arriviamo…

La lista dei titoli anticipata dalla Dynamic Italia sembra prediligere la produzione di Miike legata agli yakuza movies (film su mafiosi con gli occhi a mandorla), a scapito forse delle opere più visionarie; penso al pirotecnico horror-musical demenziale The happines of the Katakuris, al fantasy ecologico Yokai daisenso, o all’insolito Zebraman, quasi una parodia dei supereroi americani (ma prima ancora dei loro cugini nipponici Spectreman, Ultraman e Megaloman) che nasconde una forte critica sociale sullo stato della middle class giapponese.

Tuttavia parlare di generi con Miike rischia di essere riduttivo e forse fuorviante, perché il nostro è fin troppo abile a mescolare tematiche apparentemente inconciliabili; così, senza svelare troppo dei film che vedremo, può accadere che il duello tra un gangster e un poliziotto ci ricordi un episodio di Dragonball (Dead or alive 3: Final), o che uno scontro tra galli combattenti rievochi atmosfere alla Matrix (City of lost soul).

L’eclettismo e il genio di Miike sono proprio nell’irriverenza con la quale si accosta al cinema, l’irriverenza di un eterno bambino che gioca con i “giocattoli dei grandi”, che fonde la violenza più estrema con il sesso, lo humour grottesco con l’horror, l’innocenza con la perversione, e senza mai perdere una goccia del suo stile inconfondibile.

Ichi the killer, che la DYNIT distribuirà alla fine di gennaio in due edizioni (disco singolo e disco doppio, a quanto pare ricchissimo di extra), può considerarsi il manifesto della poetica Miikiana, intesa come sublimazione del dolore e poesia del perverso, una poetica che a partire da Quentin Tarantino ha estimatori insospettabili tra i cineasti di mezzo mondo.

Nel film vedremo all’opera l’impassibile Kakihara, l’uomo dal sorriso che va da un orecchio all’altro (letteralmente!), un killer spietato e masochisticamente attratto dal dolore, che indaga sulla scomparsa del suo boss. Il primo indiziato per il rapimento sembra sia Ichi, un assassino psicolabile dalla personalità multipla, a volte una marionetta nelle mani di uno strano fratello, a volte un supereroe in calzamaglia nera.

La storia, in breve, è quella del duello, inseguito, agognato addirittura, tra Kakihara e Ichi, due facce della stessa medaglia, due pedine (ma forse la pedina è una sola) sulla stessa scacchiera. Una pirotecnica esplosione di ultraviolenza, viscerale e acida, condita con un tocco di glamour e una buona dose di humour. In poche parole: alla Miike.

In attesa di godere della visionaria produzione del regista finalmente senza l’ostacolo dei sottotitoli (a tal proposito ci si augura che i doppiaggi siano all’altezza e sufficientemente “accordati”), vale la pena citare un’ultima notizia, di quelle ancora nell’aria, che vuole Takashi Miike alle prese con il live action tratto dal memorabile cartone animato Yattaman (Time Bokan); Nel 2009 la nipponica Nikkatsu Corporation porterà sugli schermi la versione “dal vivo” della serie che abbiamo apprezzato nei primi anni ’80, e il fatto che un “folle” come Miike sia stato chiamato per firmarne la regia fa ben sperare sulla buona riuscita del progetto. Un progetto “folle”, ovviamente.

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mercoledì 26 marzo 2008

Consulenti editoriali: dalla caccia ai talenti alle perle coltivate

Man mano che si abbandona la superficie degli eletti, dove gli eletti sono quelli che si guadagnano un posto al sole in libreria, e si scende negli abissi profondi dell’editoria “marginale”, ci si ritrova accerchiati dalla multiforme ed eterogenea popolazione degli autori di profondità, quelli che qualcuno ancora definisce emergenti, ma che, visti i presupposti, sarebbe più opportuno definire “sommergenti”. Là sotto, lontano dai riflettori, dalle belle vetrine e dalle recensioni sui giornali che contano, si fa fatica anche solo per non annegare, e se ogni tanto capita che qualcuno, magari sbracciando per sfuggire agli squali che popolano quelle acque, riesca a fatica ad arrivare in superficie, la regola è che chi capita sul fondo sul fondo resta.
Una volta le cose funzionavano in un altro modo, una volta c’era chi, pur restando al sicuro sulla riva, si divertiva a pescare anche in quelle acque profonde, erano i “cacciatori di talenti”, i consulenti editoriali per usare un termine meno poetico ma sicuramente più attuale, quelli che sapevano distinguere una perla anche nel fango. Talvolta a sporcarsi le mani era lo stesso editore, ma vi parlo di tempi in cui il termine era sinonimo di divinità, e poteva accadere che un autore (ma allora anche questo termine aveva una valenza differente) arrivasse alla pubblicazione senza arrischiarsi in pericolose apnee.
Oggi è diverso, oggi nell’acqua nuotano tanti pesci, e i cacciatori di una volta hanno deposto le armi e hanno rinunciato alla caccia. Il fango è troppo e troppo denso, e l’operazione di cavarne perle, ammesse che ce ne siano ancora, non ha più senso per chi è costretto a badare ai profitti e ai bilanci. Se le acque dell’editoria si sono fatte così torbide e affollate, tanto vale fabbricarsele da soli le perle: i cacciatori sono diventati coltivatori, e gli editori proprietari terrieri che di anno in anno curano i loro raccolti e seminano frutti sempre meno saporiti.

«Ma come ha fatto quel tizio a vendere tutti quei libri?» Facile: è una perla coltivata.
«E quell’altro? Faceva il calciatore…» Ancora un’altra perla coltivata.
«Possibile che il libro più venduto sia questo qui?» Idem, come sopra.

Ma se le perle coltivate stanno soppiantando quelle naturali, ha ancora senso difendere (e diffondere) la letteratura di confine, quella marginale, di “contorno”? La risposta è sì, ovviamente, perché altrimenti non avrebbe senso quello che sto scrivendo, non avrebbe senso quello che state leggendo (e quello che vorreste leggere e che magari non troverete neppure tra queste righe), e non avrebbe senso nulla di quello che scriviamo. Perché scriviamo, scriviamo in tanti, scriviamo tutti, e tutti, indistintamente, coviamo dentro di noi la segreta speranza (spesso neppure tanto segreta) che qualcuno riconosca in noi una perla di valore… o quantomeno una di quelle pietruzze minuscole che i coltivatori piazzano nelle ostriche per tirarci fuori delle perle. Perle coltivate s’intende.


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martedì 18 marzo 2008

La favola di Cenerentola e della strega che avvelena gli scrittori emergenti

Signori e signore, se volete pubblicare bisogna che tendiate bene le orecchie, perché il mondo là fuori, quello dei libri e delle pagine inchiostrate, è pieno di trappole, di trabocchetti, di tagliole affilate pronte a scattare non appena poserete un piede sul terreno apparentemente sicuro dell’editoria. Quelle tagliole talvolta hanno l’aspetto di un contratto di edizione, magari ci sarà pure il vostro nomeecognome stampigliato sopra, tanto per rendere il tutto più attraente (avete presente un amo con l’esca?), e vi assicuro che non è sempre facile sfilare il piedino da quelle ganasce d’acciaio, non è facile soprattutto per che spesso faranno in modo che la vostra tagliola vi calzi comoda come la scarpetta di Cenerentola. E nessuno di noi resta indifferente davanti al miraggio di un lieto fine fiabesco: l’eco del “e vissero felici e contenti” ci rende vulnerabili a questo tipo di tentazioni. Con noi malati di parole la strega della fiaba non fatica a dispensare le sue mele avvelenate, e la prospettiva di cullare un po’ il nostro ego con un bel libro ci espone a rischi che nessun principe e nessuna fata turchina è in grado di allontanare.

Il fatto è che con oltre 3500 editori sul territorio nazionale (di cui però solo una metà “attivi”), la possibilità di incappare in uno dei trabocchetti di cui sopra è davvero alta, così come è alto il rischio di farsi male camminando a zonzo su un sentiero che andrebbe battuto con attenzione. Se poi considerate che ogni anno vengono pubblicati quasi sessantamila titoli, la gran parte dei quali faticherete (ma è un eufemismo) a trovare in libreria, capirete bene come dinanzi a un’accresciuta “facilità” a pubblicare si registri, proporzionalmente, un’altrettanto accresciuta facilità a smarrire i frutti delle proprie fatiche letterarie nelle acque affollate di tutta questa carta stampata.

In teoria la crescita dell’offerta, il numero di titoli prodotti annualmente, dovrebbe garantire una maggiore possibilità di scelta per i lettori, ma in un Paese dove si legge poco (e si pubblica molto, diciamo pure troppo) il dato rischia di fotografare un quadro assai diverso, e parecchio meno edificante.

Di quei famosi sessantamila titoli pubblicati ogni anno, quanti credete abbiano venduto un numero decente di copie? Quanti sono stati distribuiti? Quanti hanno avuto un pubblico vero (e non parlo del parterre familiare che di solito accompagna anche il migliore degli autori emergenti)? La risposta la sapete tutti, l’avete davanti agli occhi ogni volta che entrate in libreria, la misurate sugli scaffali, nelle classifiche. Sono pochi, pochissimi, i libri che possono dirsi veramente tali (gli altri, nel migliore dei casi, sono bei prodotti tipografici) si contano sulle dita di una mano, forse di un paio di mani, a essere buoni. E, badate bene, non sto facendo (non ancora) un discorso relativo alla qualità delle opere pubblicate, sto parlando di dati, di cifre, di numeri. E di denaro, soprattutto di denaro. Perché, a volte uno se ne dimentica, come se i libri crescessero spontaneamente sugli alberi, il mestiere dell’editore non è poi tanto diverso da quello di chi ogni mattina deve alzare la saracinesca della propria bottega per portare a casa la pagnotta. È vero che in alcuni casi, solo in alcuni però, si riesce a portare a casa anche qualcosa di più di una pagnotta (e che magari ci si può evitare le levatacce cui sono tenuti invece i bravi bottegai), ma è anche vero che se un titolo non vende, o vende meno di quanto si era preventivato, a perderci non sarà mai l’autore (che al massimo potrebbe perdere la faccia, ma neanche tanto) ma che su quell’autore ha creduto, lavorato, investito. Dunque i libri che si vendono sono pochi, perlomeno rispetto all’iperbolico numero di quelli pubblicati, il resto, la stragrande maggioranza, costituisce un “dato anomalo”, il dato Italiano con cui dovrà confrontarsi chi ambisce al ruolo di scrittore.


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giovedì 13 marzo 2008

Print on demand, autoproduzione e self publishing: l’antica arte del fai da te

Alcune case editrici propongono contratti differenti in base alla caratura dell’autore, alla sua notorietà e, di conseguenza, alla sua vendibilità. Se ci pensate si tratta di una scelta sensata, perché il libro di Totti “sommergente” (e questo a prescindere dalla venderà certamente di più del mio, o di qualunque altro autore qualità intrinseca del testo), ed è comprensibile che Mr. Editore usi due pesi e due misure nello stipulare i contratti, a seconda che io sia il capitano della Roma o un semplice scribacchino di periferia.
È un discorso squisitamente “commerciale”. Il problema di fondo, però, è che tanti editori ritenuti “non a pagamento” in realtà richiedono contributi ai loro autori meno “vendibili”, e viceversa molti (meno) editori “a pagamento” possono accollarsi le spese di pubblicazione se, per qualche strana congiuntura astrale, il signor Totti decidesse di rivolgersi a loro piuttosto che alla Mondadori.
È per questa confusione che sempre più autori stanno optando per l’autoproduzione, perché se devo essere pubblicato da un micro editore semi sconosciuto, magari nutrendo il dubbio di aver sborsato quattrini per accontentare il mio ego autorale, tanto vale che salti a piè pari il fosso e mi autoproduca i miei libri, me li autodistribuisca, me li autovenda… dopo ovviamente averli autoscritti (cosa nient’affatto scontata). Tra gli auto-autori c’è gente che vale, talvolta si tratta di scrittori che hanno alle spalle pubblicazioni con editori “ufficiali”, talvolta no, ma mi piace pensare che dietro la loro scelta ci sia l’inizio di una “rivoluzione letteraria”, perché non di solo Moccia si vive.
Poi è vero che si può scrivere per arte-passione o per mestiere, ma nel secondo caso parliamo di operazioni dattilografiche, rispettabilissime, a patto che non vengano confuse, come purtroppo avviene, con il prodotto di una mente creativa che ha qualcosa da raccontare. La paccottiglia resti paccottiglia anche se vende un milione di copie.
Dunque, se proprio dovesse buttare male, e un semplice e-book non soddisfa il nostro ego strabordante (di copisterie manco a parlarne!), io opterei decisamente per la via del “self publishing”, a patto di essere assolutamente certi delle potenzialità di ciò che si scrive, e questo per evitare brutte figure con amici e parenti (i nostri futuri, e forse unici, lettori). Serve una buona tipografia, un po’ di soldini e delle buone gambe per andare in giro a consegnare le copie dei nostri capolavori… copie gratuite, s’intende.
Con il print on demand, che consente di stampare di un libro solo le copie ordinate, e con i servizi offerti on-line da siti come Lulu.com, l’autore che opta per il “fai da te” editoriale ha a disposizione gli stessi canali distributivi di una piccola casa editrice (si rasenta lo zero dunque), e può evitare la più costosa via della tipografia (oltre che le scarpinate per consegnare “porta a porta” i propri libri autoprodotti). Libri in vendita on-line, anche su portali settoriali quali Internetbookshop e Amazon, buone percentuali sulle vendite, anche se pare il 100% di zero faccia comunque zero. Ma in matematica non sono mai stato una cima.
La favola del passaparola che eleva al rango di bestseller il manoscritto ciclostilato di autore ignoto è, per l’appunto, una favola, dunque dimentichiamoci dei lieto fine e prepariamoci a un più probabile zigzagare nella mediocrità della scrittura artigianale. Con tutto ciò di buono che l’artigianato può comportare.
Se, invece, è il successo a cui si ambisce, quello “industriale” per intenderci, e se tutte le porte sembrano destinate e restarsene inesorabilmente chiuse, allora non vedo molte alternative alla via dello “spettacolo” e, nello specifico, a una carriera da velina per le future scrittrici e da calciatore per i futuri scrittori: con presupposti del genere qualunque cosa si scriva è destinata a scalare le classifiche editoriali e a guadagnare le prime pagine dei giornali… che, in questo caso, dovrebbero essere state già preventivamente esplorate a botte di gossip e blablabla

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giovedì 6 marzo 2008

Editori a pagamento: autori emergenti da sommergere

Se la mia posizione non fosse ancora chiara la ripeterò in modo più esplicito, tanto per essere sicuro che il messaggio sia recepito: mai pagare per essere pubblicati. Qualunque forma di “contributo” richiesto da parte di un editore per procedere alla stampa di un libercolo è un controsenso, perché in nessuna altra realtà un dipendente paga il suo datore di lavoro.

Il paradosso editoriale è proprio questo: un’ingiustificata inversione di ruoli in quello che dovrebbe essere un normale rapporto professionale. Impariamo a dare il giusto valore a ciò che scriviamo, chiediamo maggiore severità, maggiore selezione, probabilmente si pubblicherà di meno, probabilmente molti degli editori fantasma spariranno assieme agli spettri che sono stati capaci di evocare finora, ma di sicuro ci saranno libri migliori, e se tra questi non ci sarà quello che abbiamo scritto noi, pazienza, prima o poi dovremo pure farcene una ragione.
La gloria ha snobbato indiscussi geni della scrittura, dunque perché prendersela se snobba anche noi?

Il contributo economico per la pubblicazione è (quasi) sempre un modo subdolo per lucrare sulle aspirazioni (spesso ingenue, spesso infondate) degli autori esordienti. Fatte le dovute eccezioni, chi chiede soldi ai maniaci della penna è spesso mosso da motivazioni squisitamente economiche, e (quasi) mai incarna il mito del mecenate appassionato del bello.

La discriminante, ciò che distingue la truffa da una rara ma potenzialmente virtuosa cooperazione editoriale, è, ancora una volta, il filtro e la selezione: nessuno può (dovrebbe) pubblicare indistintamente e “senza filtro”, altrimenti non ci sarebbero più differenze tra editori e tipografi. E invece si vedono sempre più editori disposti a pubblicare tutti, magari offrendo pure invoglianti percentuali sui diritti d’autore, che, è bene precisarlo, il più delle volte assomigliano tanto ai miraggi nei deserti, fumo negli occhi destinato a svanire quando il termine del pagamento sarà abbastanza vicino da intravederne i contorni. Soldi come aria.

Generalmente quella degli editori a pagamento è vista come l’ultima possibilità per un autore deluso, quando non del tutto frustrato, di vedere su carta il frutto delle proprie fatiche letterarie. Il canto del cigno di uno scrittore poco obbiettivo con se stesso e con le sue capacità, o il compromesso infausto del genio incompreso e di quello nascosto, che nonostante quel che si dica ci sono, ci sono stati, ci saranno.

In effetti, se l’obiettività fosse più del miraggio impalpabile di cui accennavo, i reiterati rifiuti da parte degli editori “canonici” (meglio se puntuali e giustificati) dovrebbero bastare a scoraggiare tanti aspiranti autori dallo sperperare i propri danari in operazioni di mero autocompiacimento edonistico (conoscete tutti la fine del povero Narciso!)

E poi, se proprio dovessi spendere dei soldi, io preferirei dare in pasto i miei scritti a una delle agenzie letterarie di più provata esperienza. In quel caso, se non altro, sarei sicuro di ricevere un parere schietto e professionale (in fondo li pago proprio per questo!), e una mano per arrivare alla tanto sospirata pubblicazione (sempre che ciò che ho scritto abbia delle imprescindibili caratteristiche “oggettive”)

Personalmente ho declinato l’invito di svariate case editrici che chiedevano una “pubblicazione partecipativa”, con cifre proporzionali al “nome” e alla visibilità delle parti interessate: si andava da un minimo di quattrocento a un massimo di tremila euro (ma sappiate che se avete a disposizione una cifra a quattro zeri allora non ci saranno praticamente limiti per i vostri successi editoriali); più grosso è l’editore più grosso il malloppo da sborsare. A patto di cedere al ricatto, ovviamente.


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