mercoledì 26 marzo 2008

Consulenti editoriali: dalla caccia ai talenti alle perle coltivate

Man mano che si abbandona la superficie degli eletti, dove gli eletti sono quelli che si guadagnano un posto al sole in libreria, e si scende negli abissi profondi dell’editoria “marginale”, ci si ritrova accerchiati dalla multiforme ed eterogenea popolazione degli autori di profondità, quelli che qualcuno ancora definisce emergenti, ma che, visti i presupposti, sarebbe più opportuno definire “sommergenti”. Là sotto, lontano dai riflettori, dalle belle vetrine e dalle recensioni sui giornali che contano, si fa fatica anche solo per non annegare, e se ogni tanto capita che qualcuno, magari sbracciando per sfuggire agli squali che popolano quelle acque, riesca a fatica ad arrivare in superficie, la regola è che chi capita sul fondo sul fondo resta.
Una volta le cose funzionavano in un altro modo, una volta c’era chi, pur restando al sicuro sulla riva, si divertiva a pescare anche in quelle acque profonde, erano i “cacciatori di talenti”, i consulenti editoriali per usare un termine meno poetico ma sicuramente più attuale, quelli che sapevano distinguere una perla anche nel fango. Talvolta a sporcarsi le mani era lo stesso editore, ma vi parlo di tempi in cui il termine era sinonimo di divinità, e poteva accadere che un autore (ma allora anche questo termine aveva una valenza differente) arrivasse alla pubblicazione senza arrischiarsi in pericolose apnee.
Oggi è diverso, oggi nell’acqua nuotano tanti pesci, e i cacciatori di una volta hanno deposto le armi e hanno rinunciato alla caccia. Il fango è troppo e troppo denso, e l’operazione di cavarne perle, ammesse che ce ne siano ancora, non ha più senso per chi è costretto a badare ai profitti e ai bilanci. Se le acque dell’editoria si sono fatte così torbide e affollate, tanto vale fabbricarsele da soli le perle: i cacciatori sono diventati coltivatori, e gli editori proprietari terrieri che di anno in anno curano i loro raccolti e seminano frutti sempre meno saporiti.

«Ma come ha fatto quel tizio a vendere tutti quei libri?» Facile: è una perla coltivata.
«E quell’altro? Faceva il calciatore…» Ancora un’altra perla coltivata.
«Possibile che il libro più venduto sia questo qui?» Idem, come sopra.

Ma se le perle coltivate stanno soppiantando quelle naturali, ha ancora senso difendere (e diffondere) la letteratura di confine, quella marginale, di “contorno”? La risposta è sì, ovviamente, perché altrimenti non avrebbe senso quello che sto scrivendo, non avrebbe senso quello che state leggendo (e quello che vorreste leggere e che magari non troverete neppure tra queste righe), e non avrebbe senso nulla di quello che scriviamo. Perché scriviamo, scriviamo in tanti, scriviamo tutti, e tutti, indistintamente, coviamo dentro di noi la segreta speranza (spesso neppure tanto segreta) che qualcuno riconosca in noi una perla di valore… o quantomeno una di quelle pietruzze minuscole che i coltivatori piazzano nelle ostriche per tirarci fuori delle perle. Perle coltivate s’intende.


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