martedì 18 marzo 2008

La favola di Cenerentola e della strega che avvelena gli scrittori emergenti

Signori e signore, se volete pubblicare bisogna che tendiate bene le orecchie, perché il mondo là fuori, quello dei libri e delle pagine inchiostrate, è pieno di trappole, di trabocchetti, di tagliole affilate pronte a scattare non appena poserete un piede sul terreno apparentemente sicuro dell’editoria. Quelle tagliole talvolta hanno l’aspetto di un contratto di edizione, magari ci sarà pure il vostro nomeecognome stampigliato sopra, tanto per rendere il tutto più attraente (avete presente un amo con l’esca?), e vi assicuro che non è sempre facile sfilare il piedino da quelle ganasce d’acciaio, non è facile soprattutto per che spesso faranno in modo che la vostra tagliola vi calzi comoda come la scarpetta di Cenerentola. E nessuno di noi resta indifferente davanti al miraggio di un lieto fine fiabesco: l’eco del “e vissero felici e contenti” ci rende vulnerabili a questo tipo di tentazioni. Con noi malati di parole la strega della fiaba non fatica a dispensare le sue mele avvelenate, e la prospettiva di cullare un po’ il nostro ego con un bel libro ci espone a rischi che nessun principe e nessuna fata turchina è in grado di allontanare.

Il fatto è che con oltre 3500 editori sul territorio nazionale (di cui però solo una metà “attivi”), la possibilità di incappare in uno dei trabocchetti di cui sopra è davvero alta, così come è alto il rischio di farsi male camminando a zonzo su un sentiero che andrebbe battuto con attenzione. Se poi considerate che ogni anno vengono pubblicati quasi sessantamila titoli, la gran parte dei quali faticherete (ma è un eufemismo) a trovare in libreria, capirete bene come dinanzi a un’accresciuta “facilità” a pubblicare si registri, proporzionalmente, un’altrettanto accresciuta facilità a smarrire i frutti delle proprie fatiche letterarie nelle acque affollate di tutta questa carta stampata.

In teoria la crescita dell’offerta, il numero di titoli prodotti annualmente, dovrebbe garantire una maggiore possibilità di scelta per i lettori, ma in un Paese dove si legge poco (e si pubblica molto, diciamo pure troppo) il dato rischia di fotografare un quadro assai diverso, e parecchio meno edificante.

Di quei famosi sessantamila titoli pubblicati ogni anno, quanti credete abbiano venduto un numero decente di copie? Quanti sono stati distribuiti? Quanti hanno avuto un pubblico vero (e non parlo del parterre familiare che di solito accompagna anche il migliore degli autori emergenti)? La risposta la sapete tutti, l’avete davanti agli occhi ogni volta che entrate in libreria, la misurate sugli scaffali, nelle classifiche. Sono pochi, pochissimi, i libri che possono dirsi veramente tali (gli altri, nel migliore dei casi, sono bei prodotti tipografici) si contano sulle dita di una mano, forse di un paio di mani, a essere buoni. E, badate bene, non sto facendo (non ancora) un discorso relativo alla qualità delle opere pubblicate, sto parlando di dati, di cifre, di numeri. E di denaro, soprattutto di denaro. Perché, a volte uno se ne dimentica, come se i libri crescessero spontaneamente sugli alberi, il mestiere dell’editore non è poi tanto diverso da quello di chi ogni mattina deve alzare la saracinesca della propria bottega per portare a casa la pagnotta. È vero che in alcuni casi, solo in alcuni però, si riesce a portare a casa anche qualcosa di più di una pagnotta (e che magari ci si può evitare le levatacce cui sono tenuti invece i bravi bottegai), ma è anche vero che se un titolo non vende, o vende meno di quanto si era preventivato, a perderci non sarà mai l’autore (che al massimo potrebbe perdere la faccia, ma neanche tanto) ma che su quell’autore ha creduto, lavorato, investito. Dunque i libri che si vendono sono pochi, perlomeno rispetto all’iperbolico numero di quelli pubblicati, il resto, la stragrande maggioranza, costituisce un “dato anomalo”, il dato Italiano con cui dovrà confrontarsi chi ambisce al ruolo di scrittore.


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